Nella vita di tutti i giorni quella frase scivola via naturale. In famiglia, al lavoro, tra amici, la usiamo per togliere un sassolino dall’ingranaggio: c’è un compito noioso o urgente, qualcuno esita, e il più esperto si offre di risolvere in un attimo. Funziona, almeno in apparenza. L’attività si chiude, la giornata riparte e tutti tirano un sospiro di sollievo. Ma sotto la superficie succede altro: non si costruisce autonomia, non si allena la pazienza reciproca, non si trasferisce contesto. La prossima volta, senza accorgercene, ci sarà ancora più bisogno di quel “volontario” e un po’ meno capacità intorno.
È la promessa di velocità che in realtà rallenta il sistema. Quando facciamo noi “perché facciamo prima”, evitiamo l’attrito di spiegare, accettare domande, guardare un errore insieme. Eliminiamo il piccolo investimento che trasforma un compito in una competenza condivisa. Chi osserva interiorizza un messaggio chiaro: per essere considerati bravi bisogna scomparire con il problema e ricomparire con la soluzione. La cooperazione diventa un costo emotivo, non un’abitudine produttiva. Così si creano dipendenze personali, si restringe il perimetro di chi può intervenire e cresce il rischio che, all’assenza del “risolutore”, si fermi tutto.
Se spostiamo lo sguardo sul settore IT, nell'ambito dello sviluppo software, gli effetti sono amplificati.
Un ERP tocca processi core – contabilità, supply chain, produzione, vendite – e vive di integrazioni, parametri e regole che si intrecciano. Qui il “faccio io” non si limita a togliere di mezzo un’attività: lascia in ombra il perché delle scelte, la mappa dei flussi, le dipendenze con sistemi esterni. Il senior che risolve in solitaria evita il passaggio critico in cui il contesto diventa patrimonio del team. Il risultato è un’illusione di efficienza: la feature esce, ma la capacità di ripeterla con altre mani non cresce.
I rischi sono concreti e misurabili.
Specifiche frettolose generano fraintendimenti tra analisi, sviluppo e QA, si accumula rework e il debito tecnico viene mascherato da “urgenze di business”.
L’onboarding dei neoassunti diventa un percorso a ostacoli, fatto di messaggi diretti e chiamate, invece che di documenti e pratiche stabili. In ambito ERP questo significa anche vulnerabilità su compliance e tracciabilità: decisioni non annotate, parametri impostati “al volo”, script di migrazione non replicabili che in futuro rallentano audit e upgrade.
Neanche i conti, alla lunga, beneficiano della scorciatoia. È vero che nel breve può sembrare che Revenue ed EBIT ringrazino: chi fa da solo riduce costi ed alza i margini. Ma il costo ripassa dopo: più bug in produzione, più escalation, più fatica a scalare il team su nuove commesse, più rischio di burn-out per i senior.
È margine drogato, non crescita sana. La produttività sostenibile, quella che regge l’espansione del portafoglio clienti e l’evoluzione del prodotto, nasce quando più persone sanno intervenire con lo stesso linguaggio e lo stesso rigore.
Qui entra in gioco il ruolo del leader, anche fuori dal contesto IT. Non basta dire “collaborate”, bisogna progettare il lavoro perché la collaborazione sia la strada più breve, non la più faticosa. Va reso visibile il tempo necessario a spiegare, a fare mentoring, a scrivere due righe di contesto: se non sta nei piani, verrà sacrificato. Vanno riconosciuti pubblicamente i comportamenti pazienti, quelli che fanno crescere gli altri. E vanno allineati gli incentivi: premiare solo chi “chiude” porta inevitabilmente a fare da soli; premiare chi moltiplica capacità rende naturale prendersi il tempo di coinvolgere.
I KPI di team misurano la capacità, non soltanto la velocità: tempo di onboarding fino all’autonomia su un’area, numero di persone in grado di rilasciare su un modulo, regressioni post-release, copertura dei test su integrazioni critiche.
Resistere al “lo faccio io che faccio prima” non è un vezzo da puristi, è una scelta economica e organizzativa.
Nella quotidianità crea comunità invece che dipendenze; nello sviluppo ERP trasforma risultati brillanti e fragili in risultati buoni e riproducibili. La velocità che conta non è quella del singolo nel giorno fortunato, ma quella del team nella settimana difficile. E questa nasce sempre da cooperazione e pazienza progettate, praticate e premiate.